Ci sono due scene di ieri che passeranno alla storia del calcio italiano come “epiche”: l’abbraccio tra Vialli e Mancini, trent’anni dopo la finale di Champions persa dalla Doria e un tumore maligno che non vuole cedere il passo; poi le stampelle di Leonardo Spinazzola, che sale per primo il palco dei Campioni d’Europa, anticipando tutti i suoi compagni. Si può essere grandi nella sofferenza? Sì. Non c’è mito più grande.
Io credo che tra trent’anni ricorderemo poco degli undici effettivi che hanno giocato la finale. Immobile, Emerson, Barella, Bernardeschi, Toloi e Pessina, tanto per citarne alcuni. Non parliamo di fuoriclasse assoluti che hanno incantato con le loro magie. Ci ricorderemo di un gruppo compatto, coeso ed affiatato, che ha saputo andare al di là delle sue umane possibilità, passo dopo passo.
Il gallo Belotti è campione d’Europa. Neppure nei videogame succede. Lorenzo Insigne è il dieci di questa Nazionale. Strano come il tempo intro e post Covid che stiamo vivendo. Non è il riscatto di una Nazione. E’ il riscatto del bambino che è basso, gobbo, coi capelli ossigenati e non smette di sognare nel campetto di calcio dell’oratorio.
E’ il sogno delle generazioni che abitano tra le Alpi e Ragusa, e danno due calci al pallone contro il muro del castello medievale, oppure nella piazzetta del Seicento, o forse all’ombra dei pini marittimi. E’ l’anima di un paese che non crolla mai. Cade, si rialza, torna a guardare le stelle.
Gli inglesi non hanno mai avuto una seria possibilità di portare a casa la coppa nel torneo domestico. Si sono scontrati contro quei poeti dei campetti. Cresciuti a pane e pallone mentre la mamma dice loro di non sudare sotto il sole d’estate. Che sgusciano davanti al maxischermo e saltano al gol di Bonucci come se a segnare fossero loro. Che paiono dei goffi e maldestri ignoranti, come i miei editoriali.
Ma serbano l’animo dei prodi. Di chi attende il fato e sa, in cuor suo, di essere al mondo per nutrire, alimentare ed esibire la sola passione che conta. La passione che non fa arrendere. La passione che non fa mai mollare. La passione che fa cantare a squarciagola. La passione di chi scende per strada con il tricolore. La passione che nasconde le insicurezze di ciascuno attraverso le certezze di tutti.
Cosa poteva la banda di Southgate contro uno stile di vita? Nulla. Ha sfidato i pronipoti di Cesare e Leonardo. Gli antichi discendenti di Papa Giovanni e San Francesco. I figli di tutti e di nessuno.
C’è un modo di fare la storia che passa attraverso lo sport. Mancini lo sa e cosa ha fatto? Si è circondato degli amici di un tempo: Gianluca, Salsano, Evani, Lombardo. Chiesa ha chiamato la mamma, finita la partita. Bonucci ha chiamato la moglie, perché non ci sta più dentro. Donnarumma ha chiamato il PSG, perché adesso pure il fratello deve trovare posto in squadra.
Noi siamo questi. Belli e guasconi. Non possiamo essere qualcosa di diverso. E’ la nostra forza e il nostro martirio. Siamo l’Italia. Che cade, si rialza, torna a guardare le stelle.
Potevo risparmiare i caroselli a Marco? Assolutamente no. I compiti fondamentali di un padre calciatore sono due: accompagnare il figlio all’altare e andare con lui per caroselli quando la Nazionale vince. E poi, figurati, l’emozione di un Europeo era nuova per tutti, quando ricapita?
Dopo aver visto Re Giorgione alzare la coppa al cielo di Wembley, abbiamo “motoreggiato” e strimpellato col clacson tra Osio Sotto e Dalmine. Tra giovani. Fumogeni. Bandiere. Cori. Partendo dalla piazza Giovanni XXIII del Comune, dove una macchina di traverso bloccava volutamente il traffico ed innescava una processione rumorosa che dava il senso di un ritorno alle origini. Arrivati poi all’antenna in centro Dalmine, abbiamo trovato una folla ancor più numerosa ad invadere pacificamente la sede stradale, gente abbarbicata sull’antenna quasi fosse un palo della cuccagna, una dozzina di ragazzotti ha circondato la moto del Mopsi con Marco seduto dietro. Un ragazzo di colore, devo ammettere piuttosto alticcio, mi ha avvicinato nella calca e ha chiesto se poteva regalare a mio figlio una bandiera gigante, bandiera che in quel momento il ragazzetto non teneva tra le mani. Gli ho detto di sì. Il giovane guarda Marco, gli passa la bandiera e gli dice di tenerla stretta.
Oggi, alla luce del sole e caroselli finiti, quella bandiera campeggia orgogliosa nel giardino di casa.
Ed io ringrazio il ragazzo di colore che, senza nome e mezzo ubriaco, ha fatto a mio figlio il regalo più bello per celebrare Mancini, la sua banda, le piazze, le terre e il calcio d’Italia.
Spero che Marco non si scordi mai di ieri sera. Non è tempo di analisi tecniche e tattiche.
C’è spazio solo per i sogni che si avverano.