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Un amico mi ha chiesto di scrivere un editoriale speciale per ricordare la figura di Diego Armando Maradona, improvvisamente scomparso nella giornata di ieri a sessant’anni.

Raccolgo l’invito perché -confido- come tutti sono rimasto enormemente addolorato dalla notizia che il “Pibe de Oro” ci avesse lasciato così repentinamente. Il messaggio mi è arrivato mentre stavo al tavolo di giunta, e mi ha preso un po’ di malinconia. Non perché fossimo in tema di bilancio. Perché subito ho pensato a mio figlio Marco, e più tardi spiegherò lo strano sillogismo. Avevo intuito la gravità della situazione sentendo le parole di Ciro Ferrara, che non aveva voluto partecipare a Tiki Taka qualche settimana fa, saputo del malore e del conseguente ricovero di Maradona. Le voci circolate pubblicamente non erano gravi abbastanza da giustificare un’astensione di quel tipo. E il silenzio sulle sue condizioni è poi calato inesorabile, nonostante i 60 anni da poco compiuti.

In questo spazio a cuore aperto, ammetto che non ho mai “amato” sportivamente Diego Maradona: agli occhi di un ex giovane nato nel 1979, Armando è stato il killer spietato che ha fatto fuori nel 1990 l’Italia in semifinale ai Mondiali di casa. E, beffa del destino, proprio allo stadio San Paolo di Napoli. Quell’episodio mi ha insegnato a pianificare l’organizzazione di eventi e manifestazioni sportive con un gran rigore: mai mettere una videoconferenza/serata formativa il martedì o il mercoledì sera, una grande bestemmia. O una tappa di SportGiovane il giorno della partita dell’Italia ai Mondiali oltre oceano. Chi aveva scelto la sede partenopea per una delle due semifinali mondiali non è stato sfortunato: aveva fatto una cazzata. E tutti abbiamo pensato che l’Italia non potesse giocare in “trasferta“ proprio quella partita. Perché Napoli era Maradona. E Maradona era Napoli. Nel bene e nel male.

Io non ho mai conosciuto un nanetto con quel talento nei piedi. Vado dicendo una cosa che hanno insegnato a me: il grande giocatore lo vedi dallo stop del pallone. Ecco, Maradona in questo fondamentale è stato superbo, eccezionale, ineguagliabile. Era capace -e lo dico per i tanti giovanotti che sono nati quando lui finiva la carriera- di stoppare un pallone su un lancio di quaranta metri come Michelangelo trattava il colore nella Cappella Sistina. Non voglio perdermi nei meandri di chi vuole stabilire il più grande mai esistito nel mondo del calcio: so che Diego vinceva le partite da solo. So che Diego ha paralizzato un’intera generazione argentina che lo ha seguito e ha cercato di imitarlo (Aimar, Aguero, Tevez, Messi tanto per citarne alcuni) senza successo. So che Diego ha legato la sua figura di uomo e calciatore ad una città come nessun altro. Napoli era Maradona. E Maradona era Napoli. Nel bene e nel male.

Uomo e calciatore. Dicevo. Penso che il detto “genio e sregolatezza” sia stato inventato proprio per descrivere la sua figura. Gli calzava a pennello. Si potrebbero dire tante cose sull’uomo, belle e brutte, grandi e piccole, stonate o melodiche. Maradona è stato un grande leader. Uno capace di essere decisivo nel momento che conta. Uno che non ha avuto alcun timore reverenziale a scontrarsi coi poteri forti, o a dire no alle grandi del calcio internazionale di quegli anni. Il Milan di Sacchi lo cercava? Lui chiedeva ad Arrigo di venire a Napoli. L’Avvocato lo voleva sotto la Mole? Lui si girava dall’altra parte per cercare le pendici del Vesuvio. Aveva un’anima proletaria, che gli è sempre appartenuta fin da bambino, nella estrema povertà che ha segnato  i suoi primi anni di vita. Il calcio non era un gioco, per Maradona. Era una rivincita. Esistenziale e politica insieme. Dopotutto cosa fa un poeta se non promuovere la ribalta attraverso l’uso gentile delle parole? Ecco, Maradona preferiva i piedi e i piedi rispondevano a Maradona come a nessun altro.

Oggi viviamo un calcio che non è più poesia. Perché siamo in fondo convinti che la poesia sia un’arte povera, fine a sé stessa, del tutto improduttiva. Ed anche il calcio si è adattato alle regole di mercato: si è fatto fisico, veloce, organizzato all’inverosimile. Nel 1986 il gol in slalom di Maradona contro l’Inghilterra ai Mondiali era un capolavoro: oggi imprechiamo perché il terzino a venti metri dalla propria area avrebbe dovuto stenderlo senza fronzoli, appena saltato. Oppure avremmo invocato il Gasp, capace di costruire una gabbia su misura per annullare il talento avversario. E la famosa “Mano di Dio”? Non sarebbe neppure esistita, il VAR sarebbe intervenuto per fare giustizia ed annullare il gol. E forse, siamo pure convinti che Maradona sia stato grande in un calcio vecchio, lento, prevedibile. Può darsi. Ma è innegabile che sia stato autore di una delle rivoluzioni più importanti nel gioco del calcio, e maestro sublime in un’arte che oggi si insegna poco ai giovani calciatori: il dribbling.

Non voglio fare il tecnico che non sono (rubando il posto a direttori sportivi ed allenatori più preparati che ci leggono anche qui). Sta di fatto che Maradona ha guidato i sogni e le speranze di tanti: un nanetto che arriva in cima, che è il più forte, che ha realizzato quasi tutto, perché il tutto stona e non si può essere perfetti neppure nello sport.

Accompagnare i sogni nello sport. Credo che Diego fosse un precursore in questo. Forse in modo involontario, però ci lascia questa grande lezione. Che la vita è imprevedibile. Che un genio possa nascondersi in un corpo mica tanto atletico. Che puoi pure detestarlo perché non appartiene alla tua squadra del cuore, ma non può lasciarti indifferente tanta bellezza quando si manifesta in modo così evidente.

Da qui, il richiamo nostalgico a Marco e alle giovani leve di domani. Non che possano imitarlo, ogni vita è unica e speciale. Sarebbe pure deleterio e pretestuoso. Ma che non smettano mai di alzare gli occhi e guardare lassù, alla ricerca dei propri sogni. Il calcio è uno sport che si fa coi piedi. Ed è l’unica cosa che, “fatta coi piedi”, può risultare bellissima. A cinque come a cinquant’anni. Che l’imprevedibilità possa essere un valore aggiunto. Che la capacità di sorprenderci non ci abbandoni mai. Che la “sregolatezza” appartenuta alla vita di quest’uomo possa essere interpretata come la volontà incessante di cambiare il corso delle proprie stelle.